Molina: “Mi dicono che il mio sia il lavoro più bello del mondo.”
Intervista
Tra i podi del Gran Premio si aggira un uomo – sempre lo stesso – agile, misterioso, vestito di tutto punto, mai intervistato dai giornalisti. Tra i suoi compiti, passare cappellini, orologi, bottiglie e trofei ai piloti. Rimanendo sempre nell’ombra. Si chiama Alexandre Molina, è francese, e detiene un titolo a dir poco unico, quello di “Maestro di Cerimonie”.
Come si diventa maestro di cerimonie?
Non è stata una cosa voluta, né ricercata. Sono entrato in F1 nel ’95 a 21 anni. All’epoca ero ancora studente, studiavo matematica e fisica, e la F1 era più che altro un’avventura domenicale. Poi ho fatto un secondo GP per sostituire un collega. E poi un altro ancora. Alla fine della stagione, mi hanno proposto di rimanere per un anno. Ho mollato così la matematica e la fisica e mi sono iscritto allo Staps (scienze e tecniche delle attività fisiche e sportive, ndr). Per poi rendermi conto che era più di uno sport: uno spettacolo commerciale. Così ho deciso di cambiare nuovamente direzione e di prendere un diploma tecnico-commerciale part-time per due anni. Ed è stato in quel momento che il sodalizio con la F1 è diventato un vero e proprio matrimonio. Nel 2000 Gérald de Bar (ex maestro di cerimonie, ndr) diede le dimissioni e Paddy McNally (il successore, ndr) mi chiamò per propormi di lavorare con loro in maniera più stabile.
“Alexandre Molina, è francese, e detiene un titolo a dir poco unico, quello di “Maestro di Cerimonie””
Sei un appassionato di F1?
Assolutamente no. Eppure ricordo ancora il 1° maggio dell’anno prima, il ’94. All’epoca ero ancora all’università e non guardavo mai i GP. Eppure quel giorno non c’erano lezioni, ero fuori a godermi la bella giornata. Con me avevo solo una radio, e fu in quel momento che sentii il commentatore annunciare con voce tonante la morte di Ayrton Senna. Pur non essendo un appassionato di GP, sentii che si trattava di un avvenimento carico di emozioni. Ovviamente non sapevo ancora che cose sarebbe successo dopo, ma ricordo che quel momento lasciò un segno.
Cosa fai prima di salire sul podio?
Spesso, quando la gente mi viene incontro, mi dice che il mio è il lavoro più bello del mondo perché consegno orologi, cappellini e quant’altro, e ho la possibilità di incontrare i piloti e vedere le cose da una prospettiva opposta a quella degli spettatori. In realtà, mi occupo dell’organizzazione nella sua globalità, dall’inno nazionale alle bandiere, passando per i dignitari. Per me i cappellini e gli orologi sono un dettaglio tra i tanti. Mi occupo anche di tutta la parte commerciale, delle zone pubbliche, dell’F1 village, delle spese correlate, della logistica, e mi interfaccio con i promoter. Orologi e cappellini rappresentano il 5% della mia tabella di marcia!
Tra i tuoi compiti c’è anche la scelta delle grid girls?
Dico loro quello che devono fare e quando devono farlo. Le metto in griglia, sul podio, ma non sono io a selezionarle: se ne occupa un’agenzia. Io arrivo semplicemente in loco, mi affidano 55 ragazze e me ne occupo. Ma è un’attività molto meno entusiasmante di quanto si possa pensare. Dare indicazioni a 55 ragazze contemporaneamente non è come parlare con una o due persone.
Ti capita mai di essere riconosciuto per la strada?
“Mi chiamano ‘l’uomo dei cappellini’”
Mentirei se dicessi che mi capita tutti i giorni, ma abbastanza spesso sì, soprattutto in occasione di un Gran Premio. E in alcuni paesi mi capita più spesso che in altri. In genere le persone che mi avvicinano sono molto cortesi; mi chiamano ‘l’uomo dei cappellini’ o ‘l’uomo del podio’. Una volta in Belgio ero in un ristorante e sono stato avvicinato da un ragazzo che mi fa: “È lei quello che consegna i trofei?”. Io ho annuito, e lui mi ha presentato a tutti i suoi amici seduti attorno a un tavolo, che mi hanno detto: “Facciamo un gioco che è quasi più divertente del GP. Ridiamo come matti. A ogni GP, scommettiamo sul colore della tua cravatta.” (Ride)
C’è qualche pilota con cui hai stretto amicizia?
Cerco di mantenere una certa distanza, non mi sentirei a mio agio. Ovviamente, ci sono alcuni piloti con i quali ho più affinità di altri. Alcuni mi hanno detto di non gradire particolarmente la mia presenza sul circuito. Con Michael Schumacher è stato difficile, ad esempio. È una persona estremamente particolare: molto professionale ma non rendeva mai le cose semplici. Chiedeva sempre il doppio degli altri. Una cosa comprensibile: d’altronde, lui era molto più richiesto degli altri. Oggi, la persona che più mi ricorda Michael è Alonso. Sento lo stesso tipo di pressione. Non è facile da inquadrare. Ci sono giornate che vanno lisce come l’olio, altre meno. Dipende da come si sente lui. Poi, certo, a volte capitano anche momenti di complicità. Ricordo una volta quando, prima di un Gran Premio, mi sono concesso una partita a tennis. Sul campo di fianco al nostro c’era Räikönnen con un suo amico. Ci hanno proposto di fare una partita a quattro. E la corsa successiva la vince. Non appena lo vedo, mi fa: “Tennis?”. E scoppiamo a ridere. Nessuno aveva capito cosa c’eravamo detti.
Cosa vuol dire per te un podio riuscito?
Un podio sul quale non ci sono commenti da parte di nessuno. Lo scopo è passare del tutto inosservato. È una sfida non da poco perché, essendo tutto in diretta, non si ha mai una seconda possibilità. Un’altra difficoltà consiste nella minuzia dei dettagli. L’80% dei dettagli non si vede a occhio nudo e probabilmente sono io l’unico ad accorgersi se è stato commesso un errore da qualche parte oppure no.
L’esperienza del podio è una magia che si rinnova ogni volta o è diventata un’abitudine?
Quando ho iniziato, nel ’97, Gérard de Bar era il maestro di cerimonie. Io ero il suo braccio destro. Dovevo far partire gli inni nazionali con il mio CD. Controllavo le bandiere, assicurandomi che fossero nel senso giusto. Aprivo le bottiglie di champagne e le mettevo sul podio. Ricordo ancora le prime volte che ho cercato di premere “play”: tremavo talmente tanto che non riuscivo a toccare il pulsante. Durante l’inno nazionale, non ci si può muovere. E un inno dura un minuto e mezzo, se non due minuti. E quando si trema, due minuti sono lunghi. Una volta diventato io l’unico responsabile – nel 2010 in occasione del GP del Bahrein – non so come mai, ma non ho più provato alcun tipo di apprensione nel salire sul podio. Questo non vuol dire che possa concedermi la benché minima distrazione. Qualche giro prima della fine, visualizzo la cerimonia per assicurarmi che sia tutto a posto. Sono nella mia bolla. E non c’è alcuna routine; è proprio questo a spaventarmi di più.
È difficile adattarsi alle differenze di altri paesi?
È importantissimo rispettare i luoghi che si visitano. Alle volte capita di ritrovarsi accanto ai più alti dignitari del posto: re, capi si stato, primi ministri o sceicchi. Non bisogna mai dimenticare che anche in questi paesi vige un protocollo e che occorre essere diplomatici. E poi la televisione non aspetta. Non ci si può mai concedere un ritardo. Secondo il protocollo, i dignitari devono arrivare dieci giri prima della fine della gara per il briefing. Ma capita che arrivino tardi, se non tardissimo, a volte quasi troppo tardi. Una volta ad Abu Dhabi, a due giri dalla fine, i dignitari erano ancora in un’altra sala, a 200 metri. Non parlavano inglese e mi sono detto che forse quella volta non ce l’avrei fatta ad arrivare in orario. Ma tutto è andato bene alla fine. Un’altra volta in Cina, mi hanno spiegato a metà gara che i dignitari sarebbero saliti sul podio dopo i piloti. È stata necessaria una piccola discussione ma alla fine tutto si è risolto nel migliore dei modi.
Ti è già successo di assistere a risse post-gara?
“Weber adora lo champagne dalla schiuma bella corposa”
Devo ammettere che la gara che ha visto Weber contro Vettel in Malesia è stata particolarmente tesa. In Austria, nel 2002, quando Barrichello ha rallentato a pochi metri dal traguardo (per far vincere, dietro ordine della sua scuderia, il compagno di squadra Michael Schumacher, ndr), erano tutti interdetti. Quando Michael è entrato in sala, l’atmosfera non era delle migliori. Come se non bastasse, voleva dare il suo cappellino a Rubens, cosa non prevista dal protocollo, perché aveva vinto e doveva dunque avere il cappellino con il numero 1. Poi, a Nürburgring, c’erano Alonso e Massa. Ricordo che Ron Dennis aveva cercato di separarli e la situazione era talmente tesa (Massa accusò Alonso di aver provocato due contatti tra le vetture, ndr) che venne verso di me per dirmi che, se non fossimo intervenuti tempestivamente, sarebbe scoppiata una baruffa. Mi sono sentito quasi come un arbitro in un incontro di pugilato.
Come viene organizzata la logistica per mettere lo champagne sul podio? Trasporti direttamente tu le bottiglie di G.H.MUMM in borsa?
Una volta ricevute le bottiglie, le mettiamo al fresco fino all’inizio della gara. Poi, ci sono due scuole di pensiero: secondo alcuni vanno messe al caldo per un po’, in modo che producano una bella schiuma; secondo altri, vanno mantenute al fresco, così da rendere più piacevole lo champagne. Ad esempio, Weber adora la schiuma. È un tecnico, dà un colpettino sullo scalino poco prima di salire. In passato posizionavo le bottiglie all’ultimo momento, perché volevo che rimanessero fresche. Un giorno, in Canada se ricordo bene, ci fu un problema all’ultimo momento per via di un dignitario che era cambiato. Dopo aver informato la televisione, sono ritornato nell’anticamera, aspettando i piloti mentre guardavo la tv. Ho dato un’occhiata veloce al podio e mi sono accorto di non aver messo le bottiglie. Un momento di stress indescrivibile. Mi sono affrettato a disporre le bottiglie sul podio; anche perché i piloti sono molto possessivi: la loro bottiglia appartiene esclusivamente a loro e non partono senza averla presa. Vettel, in particolar modo, era legato alla sua: veniva, prendeva la sua bottiglia e lasciava un piccolo segno. Altre volte strappava un angolino dell’etichetta per essere certo di riconoscerla. Una volta mi disse: “È meglio che vinca, così almeno non devo fare tutto questo.”
Henry The Podiumist: curiosità
In occasione di ogni GP, G.H.MUMM invia quattro jeroboam, tre per il podio e una da far firmare ai vincitori, oltre alle magnum necessarie per le gare secondarie.
Lo champagne costituisce il simbolo per eccellenza della vittoria nel mondo della F1: cosa ne pensi?
Lo champagne è intimamente associato alla vittoria e al prestigio. Per questo si sposa perfettamente con il podio. È diventato quasi normale vedere lo champagne in occasione di un GP. Ogni qual volta succede un incidente, i piloti arrivano dicendo: “Niente champagne.” Si tende a legare l’euforia con lo champagne, e credo che se G.H.MUMM è rimasta fedele alla F1, è perché vi ha trovato un’assonanza. Fin dall’inizio sono stati intenzionati a legare il marchio a questa immagine. Un’associazione che finora ha funzionato perfettamente.
Henry The Podiumist: curiosità
Spruzzare la folla di champagne è un gesto che risale al lontano 1950, anno d’istituzione del Campionato mondiale di Formula 1. Fu proprio nell’anno che segnò la nascita del famoso campionato, infatti, che lo champagne venne usato per la prima volta come tributo. Per la precisione, la tradizione di omaggiare il vincitore con una bottiglia di champagne ebbe inizio nel circuito di Reims-Gueux nella regione francese della Champagne. Ma dovettero passare altri 16 anni prima che la cerimonia di premiazione assumesse la forma che tutti noi conosciamo oggi. A “ravvivare” il celebre gesto fu Jo Siffert, vincitore nella sua categoria della 24 Ore di Le Mans Una volta guadagnato il podio, Siffert bagnò inavvertitamente la folla con la sua bottiglia di champagne che, a causa dell’eccessivo calore, si era stappata da sola. L’anno successivo, nel 1967, Dan Gurney festeggiò il proprio trionfo riproponendo deliberatamente quel gesto, che divenne in questo modo un vero e proprio rituale della Formula 1.
Cosa ne pensa dello spettacolo offerto dalla F1?
Credo che gli ultimi cinque anni ci abbiano un po’ viziati, offrendo campionati avvincenti in grado di trasmettere emozioni fortissime. Le ultime gare sono spesso le più drammatiche e cariche di tensione. Quando Räikönnen trionfa nonostante i nove punti di ritardo; quando Massa vince la gara e pensa di avere il campionato in tasca ma poi Hamilton supera Glock all’ultima curva dell’ultimo giro; o ancora, quando l’anno scorso a Valencia Alonso vince e si commuove sul podio. Ad Abu Dhabi, quando qualche anno fa cinque piloti erano in lizza per aggiudicarsi il titolo di campione del mondo, e avevano tutte le carte in regola per farlo. A volerne fare un film, si penserebbe che la trama sia inverosimile. Se ci penso, mi viene la pelle d’oca.
Intervista di Charles Alf Lafon